Dal secondo rapporto Adapt- Ubi Banca del 26/03/2019 sul welfare occupazionale e aziendale è emerso che le misure di assistenza sanitaria integrativa stanno diventando un fenomeno sempre più diffuso nella contrattazione collettiva perché richiesto dai lavoratori dipendenti.

Queste misure oltre a costituire welfare occupazionale, inteso come l’insieme dei servizi e delle prestazioni che vengono erogate dalle aziende ai propri dipendenti semplicemente in virtù del contratto di lavoro, costituiscono anche veri e propri strumenti di welfare aziendale in senso stretto, dove con questi si intendono misure che incidono, ben oltre la semplice incentivazione fiscale, sull’assetto organizzativo e produttivo di impresa.

Infatti, in molti casi, l’assistenza sanitaria integrativa, indipendentemente dalla previsione nei CCNL o a livello aziendale, può essere inserita e concepita all’interno di un progetto aziendale consapevole e organizzato di sviluppo di logiche di welfare in termini di ripensamento del modo di fare impresa e di intendere il rapporto tra lavoratori e datore di lavoro. Questo risulta evidente quando le forme di assistenza sanitaria integrativa di origine contrattuale offrono prestazioni sanitarie di natura preventiva che si traducono in un miglioramento delle condizioni di salute dei lavoratori.

In merito all’agevolazione fiscale riconosciuta dall’art. 51, c. 2, lett. a) del TUIR, si ricorda quello che l’Agenzia delle entrate ha evidenziato con la circolare n. 5/E del 2018, ossia che non vi sono particolari criticità se le casse sanitarie operano rispettando i principi di mutualità.

Mentre sorgono alcune perplessità in tutte quelle ipotesi in cui esista, per ciascun iscritto/dipendente, una stretta correlazione fra quanto versato alla cassa a titolo di contribuzione ed il valore della prestazione resa nei confronti del lavoratore, o dei suoi familiari e conviventi, al punto che la prestazione sanitaria - sotto forma di prestazione diretta ovvero di rimborso della spesa - ove erogata, non può comunque mai eccedere, in termini di valore, il contributo versato dal dipendente o dal suo datore di lavoro.

In tal caso l’Agenzia delle entrate ritiene che il lavoratore non possa beneficiare del vantaggio fiscale di cui alla citata disposizione normativa per le casse aventi finalità mutualistica, rappresentato dalla non concorrenza alla formazione del reddito di lavoro dipendente dei contributi in parola, ma della detrazione prevista per spese sanitarie rimaste a carico.