Gender pay gap: il part time non può essere penalizzante
A cura della redazione

La Corte di cassazione, con l’Ordinanza n. 4313 del 19 febbraio 2024, ha deciso che, nelle progressioni economiche basate sul criterio dell’anzianità di servizio, non può essere penalizzata la lavoratrice con contratto part time solo perché ha una presenza sul luogo di lavoro inferiore ai colleghi con contratto a tempo pieno.
La questione sottoposta a giudizio della Suprema Corte ha inizio quando una lavoratrice part time è ricorsa al Tribunale del lavoro affinché quest’ultimo ordinasse al datore di lavoro della stessa (l’Agenzia delle entrate) di cessare il comportamento discriminatorio a suo sfavore e lo condannasse al pagamento di un importo a titolo di maggiori retribuzioni nel frattempo maturate.
Più precisamente, alla lavoratrice part time, nella valutazione dell’anzianità di servizio ai fini della progressione economica, le era stato attribuito un punteggio ridotto in proporzione al minor numero di ore di lavoro svolte rispetto ai colleghi di pari anzianità, ma impiegati a tempo pieno. In questo modo il suo punteggio finale è risultato inferiore a quello di un collega, mentre sarebbe stato superiore se l’anzianità di servizio della lavoratrice a tempo parziale fosse stata valutata per intero, senza tener conto della ridotta presenza oraria sul luogo di lavoro.
Secondo la parte lesa, la riduzione del punteggio attribuito per anzianità di servizio ha comportato una discriminazione diretta contraria a quanto previsto dal Dlgs 61/2000 (ora Dlgs 81/2015) sul contratto part time e una indiretta discriminazione di genere, in violazione dell’art. 25, c. 2 del Dlgs 198/2006 perché al rapporto di lavoro part time ricorrono in grande maggioranza le donne lavoratrici.
Il giudice di primo grado ha accolto il ricorso della lavoratrice, così l’Agenzia delle entrate è ricorsa alla Corte d‘Appello, ma anche quest’ultima ha dato ragione alla dipendente.
Si è così arrivato al terzo grado di giudizio.
La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso dell’Agenzia delle entrate e, richiamando pronunce già espresse sull’argomento (sent. n. 21801/2021) ha ribadito che l’obiettivo di apprezzare in misura puntuale l’esperienza di servizio è in sé legittimo. Tuttavia, in relazione al giudizio di adeguatezza e necessità dei mezzi impiegati, occorre ricordare che l’affermazione secondo la quale sussiste un nesso particolare tra la durata di un’attività professionale e l’acquisizione di un certo livello di conoscenze o di esperienza non consente di elaborare un criterio oggettivo ed estraneo ad ogni discriminazione. Infatti, sebbene l’anzianità vada di pari passo con l’esperienza, l’obiettività di un siffatto criterio dipende dal complesso delle circostanze del caso concreto, segnatamente dalla relazione tra la natura della funzione esercitata e l’esperienza che l’esercizio di questa funzione apporta a un certo numero di ore di lavoro effettuate.
In sostanza, non può esserci alcun automatismo tra la riduzione dell’orario di lavoro e la riduzione dell’anzianità di servizio da valutare ai fini delle progressioni economiche.
Occorre, invece, verificare se, in base alle circostanze del caso concreto (tipo di mansioni svolte, modalità di svolgimento ecc.) il rapporto proporzionale tra anzianità riconosciuta e ore di presenza al lavoro abbia un fondamento razionale oppure non presenti, piuttosto una discriminazione in danno del lavoratore part time.
L’onere di provare i presupposti di fatto che determinano la razionalità è a carico del datore di lavoro.
I giudici di legittimità hanno anche ribadito che è discriminazione indiretta qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento che mette di fatto i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso.
La Legge non richiede che si tratti di comportamenti o atti illeciti o discriminatori anche sotto altro profilo, ma guarda soltanto al risultato finale della discriminazione.
Pertanto, hanno condiviso la posizione del giudice di merito che è partito dal dato statistico documentato che la stragrande maggioranza di donne dipendenti dell’Agenzia delle entrate chiede di usufruire del part time, per concludere che svalutare il part time ai fini delle progressioni economiche non legate ad avanzamenti di carriera, ma comunque meritate, secondo parametri che includono anche l’anzianità di servizio, significa, nei fatti, penalizzare le donne rispetto agli uomini con riguardo a tali miglioramenti di trattamento economico.
Infine, la Suprema Corte ha concluso che la preponderante presenza di donne nella scelta del lavoro part time è da collegare al noto dato sociale del tuttora prevalente impegno in ambito familiare e assistenziale, sicché la discriminazione nella progressione economica dei lavoratori part time andrebbe a penalizzare indirettamente proprio quelle donne che già subiscono un condizionamento nell’accesso al mondo del lavoro.
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