La Corte di Cassazione, con la sentenza 21/11/2018 n.30126, ha deciso che ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere, come prevista dall’art. 428 c.c., costituente causa di annullamento del negozio giuridico, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente.

In questo caso infatti viene meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all’importanza dell’atto che sta per compiere.

Nel caso in esame, un lavoratore dopo aver rassegnato le dimissioni presso un Comune, le aveva impugnate chiedendo al giudice che venissero considerate prive di efficacia in quanto all’atto delle stesse mostrava un notevole turbamento psichico anche se non si trovava nelle condizioni di totale esclusione della capacità di intendere e di volere.

Nei primi due gradi di giudizio i giudici di merito hanno respinto le doglianze del lavoratore, così quest’ultimo è ricorso alla Corte di Cassazione.

I giudici di legittimità hanno richiamato le precedenti pronunce (Cass. 8361/2014 e 4241/2015) secondo cui nel giudizio promosso dal lavoratore in cui si controverta sulle modalità di risoluzione del rapporto di lavoro, l’indagine circa la sussistenza di dimissioni del lavoratore deve essere rigorosa, essendo in discussione beni giuridici primari, oggetto di particolare tutela da parte dell’ordinamento, sicché occorre accertare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l’incondizionata volontà di porre fine al rapporto stesso.

Inoltre affinché le dimissioni siano annullabili non è necessario che il lavoratore si trovi in uno stato di incapacità naturale, intesa questa come lo stato psichico abnorme, pur se improvviso e transitorio e non dovuto ad una tipica infermità mentale o a un vero e proprio processo patologico che abolisca o scemi notevolmente le facoltà intellettive o volitive, in modo da impedire od ostacolare una seria valutazione degli atti che si compiono o la formazione di una volontà cosciente.

Infine, ricorda la Suprema Corte, in caso di dimissioni date dal lavoratore in stato di incapacità, il diritto a riprendere il lavoro nasce con la sentenza di annullamento ex art. 428 c.c., i cui effetti retroagiscono al momento della domanda, stante il principio secondo cui la durata del processo non deve andare a detrimento della parte vincitrice. Solo da quel momento nasce il diritto alla retribuzione, in quanto l’efficacia totalmente ripristinatoria dell’annullamento del negozio unilaterale risolutivo del rapporto di lavoro non si estende al diritto alla retribuzione, la quale di regola, salvo espressa eccezione di legge, non è dovuta in caso di mancanza di attività lavorativa (Cass. 8886/2010).