La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 249 del 8 luglio 2010, ha dichiarato l'illegittimità dell'aggravante di clandestinità introdotta con il primo pacchetto sicurezza del 2008 dal Governo.

La Consulta ha giudicato incostituzionali gli articoli 3, primo comma, e 25, secondo comma, della Costituzione, l´articolo 61, numero 11-bis, del codice penale, e, in via consequenziale, l´articolo 1, comma 1, della Legge 15 luglio 2009, n. 94, contenente disposizioni in materia di sicurezza pubblica nonché l'articolo 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, limitatamente alle parole "e per i delitti in cui ricorre l´aggravante di cui all´art. 61, primo comma, numero 11-bis), del medesimo codice".
Secondo la Corte, infatti, la condizione giuridica dello straniero non deve essere considerata – per quanto riguarda la tutela dei diritti – come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi, specie nell’ambito del diritto penale, che più direttamente è connesso alle libertà fondamentali della persona, salvaguardate dalla Costituzione con le garanzie contenute negli artt. 24 e seguenti, che regolano la posizione dei singoli nei confronti del potere punitivo dello Stato.
Il rigoroso rispetto dei diritti inviolabili, continua la Consulta, implica l’illegittimità di trattamenti penali più severi fondati su qualità personali dei soggetti che derivino dal precedente compimento di atti del tutto estranei al fatto-reato, introducendo così una responsabilità penale d’autore in aperta violazione del principio di offensività. D’altra parte, il principio costituzionale di eguaglianza in generale non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero. Ogni limitazione di diritti fondamentali deve partire dall’assunto che, in presenza di un diritto inviolabile, il suo contenuto di valore non può subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei poteri costituiti se non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante.
Sulla scorta delle predette considerazioni, si deve riconoscere che l’aggravante di cui alla disposizione censurata non rientra nella logica del maggior danno o del maggior pericolo per il bene giuridico tutelato dalle norme penali che prevedono e puniscono i singoli reati.