Secondo le conclusioni dell’avvocato generale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nella causa C-157/15, diffuse con il comunicato stampa 31/05/2016 n.54/16, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione il divieto posto ad una lavoratrice di fede musulmana di indossare un velo islamico sul luogo di lavoro se tale divieto si fonda su una regola aziendale  generale  intesa  a  vietare  sul  posto  di  lavoro  segni  politici, filosofici  e  religiosi  visibili e non  poggia  su  stereotipi  o  pregiudizi  nei  confronti  di  una  o  più  religioni  determinate  oppure  nei confronti di convinzioni religiose in generale.

In un tale caso infatti non vi sarebbe un trattamento meno favorevole sulla base della religione.

Nel caso sottoposto alla decisione della Corte di Giustizia UE, una lavoratrice di fede musulmana, occupata come receptionist presso una società belga, dopo tre anni di attività, ha insistito di poter indossare un velo islamico al lavoro. E’ stata quindi licenziata, in quanto presso la società è vietato portare segni religiosi, politici e filosofici visibili.

Con il sostegno del centro belga per le pari opportunità e la lotta al razzismo, la medesima lavoratrice ha citato per danni la società dinanzi ai giudici belgi, rimanendo soccombente nei primi due gradi di giudizio.

Anche se a prima vista il divieto in questione potrebbe costituire una discriminazione indiretta fondata sulla religione, l’Avvocato generale ritiene invece che tale discriminazione potrebbe essere giustificata al fine di attuare una politica legittima di neutralità religiosa e ideologica perseguita dal datore di lavoro nella propria azienda, sempreché in tale contesto il principio di proporzionalità venga rispettato.

Per quanto riguarda, infine, il controllo di proporzionalità in senso stretto, molti elementi depongono nel senso che il divieto controverso non arreca, nella specie, un eccessivo pregiudizio ai legittimi interessi delle lavoratrici in questione e deve pertanto essere considerato proporzionato.

Certo, la religione rappresenta per molte persone una parte importante della loro identità e la libertà di religione costituisce uno dei fondamenti di una società democratica.

Tuttavia, conclude l’avvocato generale, mentre  un  lavoratore  non  può  «mettere  nell’armadietto»  il  proprio  sesso, il  colore  della  propria pelle, la propria  origine etnica, il proprio orientamento sessuale, la propria età o il proprio handicap non  appena entra nei  locali  del  proprio  datore  di  lavoro,  dallo  stesso lavoratore può  essere pretesa una certa riservatezza per quanto attiene all’esercizio  della  religione  sul  luogo  di  lavoro,  sia  che  si  tratti  di  pratiche  religiose o di  comportamenti  motivati  dalla  religione  sia  che  si  tratti  come nella specie del suo abbigliamento.

Il grado di riservatezza che può essere preteso da un lavoratore dipende da una valutazione complessiva di tutte le circostanze rilevanti del singolo caso concreto.