La Corte di cassazione, con l’Ordinanza n. 19556 del 15 luglio 2025, ha deciso che il datore di lavoro può legittimamente licenziare per GMO il lavoratore che rifiuta la proposta datoriale di rimanere in azienda, ma con un inquadramento inferiore rispetto a quello iniziale.

Nel caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte, un quadro aveva impugnato davanti al giudice del lavoro il proprio licenziamento per GMO, intimato dall’azienda dopo che, per evitare il recesso, gli era stato proposto ricoprire mansioni corrispondenti al primo livello di inquadramento previsto dal CCNL, con conseguente retribuzione inferiore.

I giudici di merito hanno rigettato il ricorso del lavoratore, così quest’ultimo si è rivolto alla Corte di cassazione.

Anche i giudici di legittimità non hanno accolto il ricorso del lavoratore, ribadendo un principio consolidato (Cass. SS.UU n. 7755/1998) secondo cui la permanente impossibilità della prestazione lavorativa può oggettivamente giustificare il licenziamento ex art. 3 L. n. 604 del 1966 sempre che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni non solo equivalenti, ma anche inferiori. Detto principio si fonda sull'assunto razionale dell'oggettiva prevalenza dell'interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall'estinzione del rapporto.

Il principio, originariamente affermato in caso di sopravvenuta infermità permanente, è stato poi esteso anche alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovute a soppressione del posto di lavoro in seguito a riorganizzazione aziendale, ravvisandosi le medesime esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro da ritenersi prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore (a partire da Cass. n. 21579 del 2008; in conformità: Cass. n. 4509 del 2016; Cass. n. 29099 del 2019; Cass. n. 31520 del 2019).

Anche la Corte costituzionale ha avallato tale principio con la sentenza n. 188/2020, la quale, stabilendo la possibilità di applicare la retrocessione quale sanzione disciplinare "sostitutiva" della destituzione, ha considerato proprio la richiamata giurisprudenza di legittimità per affermare che, in ossequio alla logica del "male minore", "la tutela della professionalità del lavoratore cede di fronte all'esigenza di salvaguardia di un bene più prezioso, quale il mantenimento dell'occupazione.

La Suprema Corte ha quindi affermato che il datore, prima di intimare il licenziamento, è tenuto a ricercare possibili situazioni alternative e, ove le stesse comportino l'assegnazione a mansioni inferiori, a prospettare al prestatore il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, potendo recedere dal rapporto solo ove la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore.

La Corte di cassazione coglie l’occasione anche per evidenziare la differenza con il demansionamento previsto dall’art. 2103 cc.. Quest’ultimo, infatti, persegue un preminente interesse del datore di lavoro, il quale per esigenze organizzative ha il potere unilaterale di adibire il prestatore a mansioni inferiori, a prescindere dal consenso del lavoratore, sebbene entro determinati limiti (di categoria e di livello) e comunque con il diritto del dipendente alla conservazione del trattamento retributivo in godimento.

Invece, nel demansionamento per evitare il licenziamento, l'interesse è quello del dipendente alla conservazione del posto di lavoro, rispetto al quale, in ragione della logica del "male minore", è possibile sacrificare sia la professionalità acquisita, sia la retribuzione in godimento, di modo che la proposta di adibizione a mansioni inferiori non incontra i limiti imposti dal novellato art. 2103 c.c., ferma restando la scelta del lavoratore di non aderire alla proposta, ma in tal caso il licenziamento non può che ritenersi legittimo.