Proseguimento del rapporto dopo un licenziamento verbale non provato
A cura della redazione
Il lavoratore che afferma di essere stato licenziato oralmente deve provare l'estromissione dal luogo di lavoro e non la semplice cessazione della prestazione.
Così si è espressa la Corte di cassazione con la sentenza del 24 novembre 2025 n. 30823 nell’ambito di un procedimento giudiziale in cui è stata richiesta la nullità del recesso e l’applicazione della tutela reale di cui all’art. 18 della legge 300/1970.
I giudici hanno stabilito che la mancata prova da parte del lavoratore che il rapporto di lavoro è cessato per volontà del datore di lavoro, non crea un effetto automatico tale da ricondurre la causa della cessazione del rapporto a dimissioni da parte del lavoratore oppure ad una risoluzione consensuale. Quest’ultimo, qualora lo sostenga, deve fornire una prova puntuale, cioè non può trarre dalla mancata prova da parte del lavoratore, la conclusione che il lavoratore abbia voluto dimettersi.
E’ questo, tra l’altro, un problema strettamente connesso al procedimento di dimissioni presunte istituito dalla legge 203/2024 che prevede, al contrario, che da un comportamento del lavoratore (l’assenza ingiustificata per un certo periodo), l’effetto presunto di volersi dimettere può essere annullato dal lavoratore stesso che provi la sussistenza di altre ragioni dell’assenza, magari proprio di avere creduto di essere stato licenziato verbalmente dal datore di lavoro.
Tornando alla recente sentenza 30823/2025, la Cassazione ha voluto fissare il principio in base al quale, dopo la mancata prova da parte del lavoratore circa la volontà di licenziare, seguito dal difetto della dimostrazione da parte del datore di lavoro della volontà del lavoratore di recedere, si determina la giuridica continuità del rapporto di lavoro con diritto del lavoratore al risarcimento del danno dalla data di messa in mora del datore di lavoro a riprendere il rapporto di lavoro interrotto, secondo i principi generali.
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