Va provata la subordinazione nel lavoro familiare
A cura della redazione

La Corte di cassazione, con l’Ordinanza n. 23919 del 26 agosto 2025, ha deciso che spetta al lavoratore l’onere di provare che sussiste il rapporto di lavoro subordinato con un proprio familiare, anche se quest’ultimo non è convivente.
Il fatto prende origine da un ricorso avanzato da un lavoratore volto ad annullare il verbale di accertamento con il quale l’INPS ha ritenuto l’insussistenza del rapporto di lavoro subordinato agricolo con 5 lavoratori, tra cui il figlio del datore di lavoro.
I giudici dei primi due gradi di giudizio hanno accolto parzialmente il ricorso, confermando l’accertamento dell’INPS solo per il figlio del datore di lavoro dato che la prova che sussista la subordinazione non può fondarsi solo sulle buste paga e sulla cessata convivenza.
Il ricorrente ha ritenuto, da un lato che l’INPS avrebbe dovuto provare il disconoscimento del rapporto di lavoro del datore con il figlio e dall’altro che la mancata convivenza fa venir meno la presunzione di gratuità.
Di diverso avviso la Corte d’appello che ha ritenuto, invece, che incombesse sulla parte privata l’onere di provare la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato agricolo, e che, pur prescindendo dalla convivenza, la prova del rapporto di lavoro tra familiari debba essere rigorosa, trattandosi di prestazioni normalmente rese affectionis vel benevolentiae causa.
Inoltre, in merito all’onerosità del rapporto, non costituisce prova il mero dato formale delle buste paga, dovendosi richiedere l’effettivo pagamento delle retribuzioni. A nulla hanno rilevato le deposizioni rese da un teste, addetto al materiale pagamento in contanti delle retribuzioni.
Il lavoratore ha, quindi, proposto ricorso in Cassazione.
I giudici di legittimità hanno prima di tutto ribadito, richiamando la sentenza n. 14965/2012, che spetti all’INPS dimostrare i fatti su cui si basa la sua richiesta di contributi.
Il verbale ispettivo ha valore di prova piena, fino a querela di falso, per quanto riguarda i fatti osservati direttamente dall’ispettore e le dichiarazioni ricevute, ma non ha lo stesso valore per le valutazioni soggettive o le informazioni ricevute da terzi (Cass. n. 23800/2014).
Tuttavia, quando l’INPS, in autotutela, annulla rapporti di lavoro subordinato, e da ciò deriva l’assenza di una posizione assicurativa e previdenziale, spetta al cittadino dimostrare l’effettiva esistenza del rapporto di lavoro subordinato.
Nel caso dei rapporti di lavoro agricolo, se l’INPS disconosce il rapporto di lavoro, questo comporta la cancellazione del lavoratore dall’elenco dei braccianti agricoli e l’annullamento dei periodi di lavoro dichiarati dal datore ai fini contributivi.
Anche su questo punto, la Cassazione ha chiarito che spetta al lavoratore dimostrare l’esistenza del rapporto agricolo.
Infatti, l’iscrizione nell’elenco dei lavoratori agricoli assolve una funzione di agevolazione probatoria, ma perde efficacia se l’INPS, dopo un controllo, nega che il lavoro sia mai avvenuto, ai sensi dell’art. 9 del d.lgs. 375/1993.
In questi casi, il lavoratore deve provare non solo che ha lavorato, ma anche per quanto tempo e che si trattava di un vero rapporto retribuito, per poter mantenere i propri diritti previdenziali.
Nel caso di rapporti di lavoro tra familiari, per dimostrare che si tratta di lavoro subordinato vero e proprio, bisogna provare con chiarezza sia la subordinazione sia l’onerosità.
Se i familiari convivono, vale una presunzione di gratuità del lavoro, cioè si presume che si tratti di un aiuto familiare non retribuito, per motivi di solidarietà e collaborazione interna alla famiglia.
Se invece non convivono, non si applica automaticamente la presunzione opposta, cioè non si presume che il lavoro fosse retribuito. Anche in questo caso, chi vuole far valere l’esistenza del rapporto di lavoro deve dimostrare tutti gli elementi, in modo preciso e rigoroso, inclusi subordinazione e onerosità (Cassazione Ordinanza n. 19144/2021).
Riproduzione riservata ©