Così ha deciso la Corte di cassazione con la sentenza 24245 del 31 agosto scorso.La lavoratrice, dipendente da un medico di base, era stata licenziata per gmo in pendenza di un percorso per la procreazione medicalmente assistita già intrapreso da tempo.

L’ambulatorio dove lavorava infatti avrebbe dovuto essere rilevato da una cooperativa tramite una cessione di azienda senza perciò che ricorresse alcun gmo dal momento che l’organizzazione del lavoro sarebbe rimasta la stessa.

Perciò la Cassazione ha ritenuto il licenziamento mosso in definitiva da motivi discriminatori e come tale da considerare nullo, stante la mancata prova da parte del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 40 del D.Lgs. 198/2006, dell’assenza di comportamenti discriminatori da parte sua, pur avendo la dipendente fornito prova che l’intenzione di licenziarla si sia concretizzata proprio in concomitanza con la fase già molto avanzata della pratica di procreazione assistita, attraverso la nuova e più efficace procedura della fecondazione in vitro rispetto a quella dell’inseminazione.

Per i giudici di appello in definitiva, la maggiore probabilità che insorgesse lo stato di gravidanza avrebbe indotto il datore di lavoro a forzare il licenziamento adducendo un gmo di fatto non riscontrabile ma in grado di nascondere un intento discriminatorio.