La Corte di cassazione, con l’Ordinanza n. 21965 del 30 luglio 2025, ha deciso che è illegittimo il trasferimento di una lavoratrice che ha rifiutato il trasferimento presso un’altra sede di lavoro per essere adibita a mansioni inferiori a quelle originariamente assegnate.

Nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, iI giudici di merito hanno accolto la domanda della lavoratrice accertando che la stessa, rispetto agli altri colleghi, era stata in cassa integrazione per un periodo più lungo per essere poi trasferita in un’altra sede in quanto il legale rappresentante dell’azienda non “la voleva più vedere”. Inoltre, è stato accertato che le mansioni a cui era stata assegnata risultavano corrispondenti al quinto livello contrattuale, ossia un livello inferiore rispetto all’inquadramento originario.

Quindi, la Corte d’Appello, in conformità al Tribunale, ha ritenuto giustificato il rifiuto della lavoratrice al trasferimento, sia in virtù dell’art. 1460 c.c. e sia per il rilievo che gli atti nulli non producono effetti, con conseguente insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, vale a dire l’assenza ingiustificata presso la sede di ultima destinazione.

La società ha così proposto ricorso in Cassazione la quale, rigettandolo, ha affermato che nei contratti a prestazioni corrispettive, tra le quali rientra il contratto di lavoro, qualora una delle parti adduca, a giustificazione della propria inadempienza, l’inadempimento dell’altra, il giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, considerando non tanto il mero elemento cronologico quanto i rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute rispetto alla funzione economico e sociale del contratto, il tutto alla luce dei reciproci obblighi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. e ai sensi dell’art. 1460 c.c. affinchè l’eccezione di inadempimento sia conforme a buona fede e non pretestuosamente strumentale all’intendo di sottrarsi alle proprie obbligazioni contrattuali.

La Suprema Corte ha richiamato diverse pronunce espresse sul medesimo argomento, tra le quali la sentenza n. 4060/2028, secondo cui il rifiuto del lavoratore di ottemperare ad un provvedimento del datore di lavoro al trasferimento ad una diversa sede, ove giustificato dalla contestuale assegnazione a mansioni asseritamente dequalificanti, impone una valutazione comparativa, da parte del giudice di merito, dei comportamenti di entrambe le parti, onde accertare la congruità tra le mansioni svolte dal lavoratore nella sede di appartenenza e quelle assegnate nella sede di destinazione; queste ultime devono essere vagliate indipendentemente dal loro concreto svolgimento, non essendo accompagnati i provvedimenti aziendali da una presunzione di legittimità che ne imponga l’ottemperanza fino ad un diverso accertamento in giudizio.

Sempre in tema di trasferimento adottato in violazione dell’art. 2103 c.c. è stato statuito che l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell’art. 1460 c.c. alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede e sia accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria.